Questa è una storia dura, ma allo stesso tempo delicata, di una sopravvivenza, di un ritornare a scavare di nuovo in un passato che si vorrebbe tanto non aver vissuto. E’ la storia di Millie Werber che viene raccontata grazie all’aiuto di Eve Keller docente di Letteratura inglese e direttore del dipartimento di Anglistiva della Fordham University. Nel ’39 la Germania invase la Polonia, nel ’41 nella cittadina di Radom furono creati due ghetti e successivamente furono istituiti i campi di lavoro dove furono mandati milioni e milioni di ebrei. Millie contro la sua volontà viene arruolata in una fabbrica di produzione di armamenti fuori dal ghetto, la sua preoccupazione più grande oltre alle brutali condizioni lavorative, e che così facendo non avrebbe potuto rivedere più la sua famiglia. Ma perché proprio a lei? Non era meglio restare nel ghetto? A quindici anni conosce un poliziotto polacco che ha il compito di supervisionare gli ebrei, Heniek, che diventerà il suo amore, proprio in questi luoghi dove l’aridità e lo svilimento dei sentimenti è all’ordine del giorno loro due riescono a condividere ciò che non è solo un agire per interesse. Si può insieme riuscire a sopravvivere? Conoscere l’amore nei campi di concentramento è possibile, o è solo illusione? Un viaggio in Argentina viene offerto ad Heniek e la sua famiglia. Ma qual è la sua famiglia? E’ una trappola? Heniek così chiede a Millie di sposarlo e di partire con lui. Tutto questo progetto resterà solo un bel sogno, Heniek dopo pochi mesi muore, Millie con un po’ di fortuna e tenacia riesce a scampare ad altri massacri. Finisce la guerra, e le deportazioni insieme ai massacri, tutti i reduci dei campi cercano di prendere in mano la loro vita per ridargli un senso. Questo è un progetto comune a tutti i sopravvissuti che poi diviene condivisione tra Millie e Jack che partono per gli Usa in cerca di fortuna, desiderosi di insabbiare un passato e di vivere il presente. Tutto non può essere cancellato completamente, ma la forza di Millie può far comprendere come da ogni sventura ci si può riprendere, si può combattere, si può aiutare a non dimenticare pur cercando un presente diverso. Millie Werber ha dedicato questo intenso e sincero resoconto ai suoi figli, nipoti e pronipoti e ai suoi due grandi amori: uno sfiorito in un istante, l’altro rimasto in fiore per sessant’anni. “Adesso Auschwitz viene chiamata campo di sterminio, la fabbrica della morte. In un solo giorno furono uccise diecimila persone, in totale più di un milione. Sembrava il regno della morte: corpi scheletrici, occhi infossati, fumo nero delle ciminiere. E poi c’era il tanfo, il fetore causato da ciò che bruciava. Ad Auschwitz non cresceva nulla. Quel luogo era più arido di un deserto, come se la natura stessa sapesse che vi regnava la morte. Non c’erano alberi né cespugli, neanche un filo d’erba. Neanche una mosca. Niente. Auschwitz era la fine del mondo, il dominio della morte.”