"Io li interrogo ed essi mi rispondono, e per me parlano e cantano... Alcuni allontanano le preoccupazioni e riportano il sorriso... altri mi insegnano a conoscere me stesso"... "I libri possiedono un grande potere. Accendono ciò che hai dentro, sono come scintille. Agiscono su quello che già esiste, permettendogli di crescere e svilupparsi." In La rilegatrice di storie perdute, quarto romanzo di Cristina Caboni, a mettere insieme i pezzi di una storia dimenticata è Sofia Bauer, bibliotecaria di Roma alle prese con la separazione dal marito Alberto. Sofia si imbatte in una vecchissima edizione di uno scrittore romantico e decide di restaurarla. Ma le rilegatrici sono due: c’è anche Clarice, nobildonna vissuta i primi dell’Ottocento tra Vienna e Roma, che ha appreso l’arte della rilegatura in segreto. Tra le due donne c’è una corrispondenza incredibile: la comune passione per i libri, spesso usati per evadere dalla realtà, un matrimonio sbagliato, il bisogno di fuggire e ricominciare. A connetterle è, naturalmente, il libro che Sofia sta restaurando, che nasconde pagine segrete scritte da Clarice. La ricerca della verità porta Sofia a incontrare Tomaso Leoni, schivo e affascinante grafologo, l’unica persona con cui Sofia non senta la necessità di “un negoziare continuo, un trovare compromessi”, l’unico con cui tornerà a “essere se stessa completamente”. C’è indubbiamente molto fascino, dicevamo, nell’idea di trovare un libro antico, una storia, mettersi a investigare sulle tracce di un passato sbiadito. Purtroppo il fascino è proprio ciò che manca a questo romanzo. Molto della magia di un libro viene dal suo linguaggio, dalla capacità dell’autore di inserire dialoghi serrati dove servono, in altri casi solo descrizioni, gesti. E a volte nulla (l’effetto del taglio di una frase, che rende la narrazione meno didascalica, può essere enorme). A mio giudizio qui manca il ritmo. Ho provato a chiedermi se il problema non fosse un altro: ho sbagliato libro, ma agli estimatori del genere questo tipo di linguaggio piace da matti. Non credo sia questo il punto: il romanzo è costruito sull’alternanza di due storie che procedono in parallelo ma sono narrate con un registro completamente diverso. Tra i due ho preferito quello della storia di Clarice, perché meno ridondante, più asciutto, efficace (pur essendo la sua storia ambientata due secoli fa). Quanto a Sofia, le parole della sua storia sono artificiose, costruite; troppe moine, sguardi, troppi dettagli banali di cui il lettore può anche fare a meno. Trovo che una parte del romanzo (quella ambientata ai giorni nostri) penalizzi l’altra. Altra nota dolente: questa edizione del libro presenta diversi errori grammaticali, che francamente disturbano la lettura (per chi se ne accorge; per gli altri, è un’occasione mancata di imparare qualcosa da un libro). Interessante, invece, l’idea di far precedere ogni capitolo da una citazione (Goethe, Dickens, Hemingway, Shelley, Austen, solo per citarne alcuni). È questo, credo, uno degli aspetti del volume che meglio esprimono l’amore per la lettura, la volontà dell’autrice di scrivere per gli appassionati, per chi considera il libro un fine e non un mezzo. Questo e, certamente, il fatto stesso che i libri siano ciò che salva le due protagoniste, in un caso offrendo un rifugio, nell’altro una spinta a rimettere in movimento la vita. Per un romanzo che ha l’ambizione di esprimere la passione per la lettura, di parlare con i librai e i lettori, però, il linguaggio non è adeguato, il finale è un po’ debole (parlo sempre della storia di Sofia, quella di Clarice sarebbe bastata a se stessa, sotto ogni punto di vista), il risultato non convince.