Creatura di sabbia
  • 9788806130688
  • Einaudi (Tascabili. Letteratura, 107)
  • 01/01/1992

Creatura di sabbia

di Tahar Ben Jelloun

In un paese senza età, che è anche il Marocco di oggi, nasce dopo sette sorelle Mohamed Ahmed. Nasce femmina, ma per volere del padre, che non vuole disperdere il patrimonio accumulato, crescerà maschio a dispetto del suo corpo, e dovrà reggere la casa e la servitu, essendo riconosciuta da tutti come nuovo capofamiglia. Il romanzo è la storia di un'identità inventata, di una metamorfosi coatta, dei turbamenti, delle ossessioni, delle violenze e dei paradossi che ne derivano. Ed è anche una finestra aperta sul mondo arabo, sulle sue tradizioni e sui suoi tabu, che ancora oggi stentiamo a capire


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Commenti (5)

03/04/2013 - Gino
utente
Questo libro narra della vita di Mohamed Ahmed, scritta in un diario segreto dove ogni notte riversa le sue ossessioni e la sua ipersensibilità: le angosce che nascono dall’artificialità del ruolo sociale e familiare al quale è stato segretamente destinato dal padre. E’ la storia di una metamorfosi forzata, di una essere disgraziatamente nato femmina e allevato dal padre come un maschio. E’ la storia di una scelta per riprendersi un onore che stava svanendo, di una società – quella islamica -, che del corpo delle donne ne ha fatto sempre più oggetti da esibire, suppellettili da ornamento. Tra tradizione e memoria, l’autore di nascita marocchina, dà vita ad una storia che è si articola non in semplice modo, alternandosi tra narrazione donna e uomo, da bibliotecario cieco, da maestro di mistificazioni, si sdoppia nelle parole del narratore e della sua visitatrice. Effetti di ridondanza unica caratterizzano la scrittura di Ben Jelloun, che in “Creature di sabbia” riesce a sovrapporre un testo-canto, costituito spesso di monologhi epistolari, sull’organizzazione di un testo-gioco costruito in un racconto nel racconto. Tanto di meglio non c’è che nel lasciarvi assaporare la poesia della scrittura che per me riassume un po’ tutta la storia: Soffia il vento della ribellione! Voi siete liberi di credere o di non credere a questa storia. Ma, associandovi al racconto, volevo proprio valutare il vostro interesse…Il seguito adesso lo leggo…E’impressionante. Apro il libro, salto le pagine bianche…Ascoltate! «Si tratta di una verità che non può essere detta, nemmeno suggerita, ma vissuta nella solitudine assoluta, circondata da un segreto naturale che si mantiene senza sforzo e che di essa costituisce la scorza e l’odore interiore, un afrore di stalla abbandonata, oppure il lezzo che emana qualche volta da una ferita non cicatrizzata nei momenti di stanchezza, quando uno si lascia vincere dalla negligenza, quando non è ancora l’inizio della putrefazione, una degenerazione fisica dove tuttavia il corpo la sua immagine intatta, perché la sofferenza viene da una profondità che in nessun modo può essere rivelata. Non si sa più dove ci si trova, se in sé o altrove, in un cimitero, in una tomba appena scavata, appena abitata da una carne avvizzita, dallo sguardo funesto di un’opera singolare semplicemente disintegrata al contatto con l’intimità invischiata a questa verità, così come un’ape in un boccale di miele, prigioniera delle sue illusioni, condannata a morire, strangolata, soffocata dalla vita. Questa verità banale, insomma, disfa il tempo e il volto, mi tende uno specchio dove non posso guardarmi senza essere turbato da una tristezza profonda, non da una malinconia giovanile che culla il nostro orgoglio e ci addormenta nella nostalgia, ma una tristezza che disarticola l’essere, lo solleva dal suolo e lo getta come un oggetto inutile su una montagnola di immondizie o in un ripostiglio municipale di oggetti ritrovati che nessuno è mai venuto a reclamare, o meglio ancora nel granaio di una casa abbandonata, territorio dei topi. Lo specchio è diventato la strada attraverso la quale il mio corpo è pervenuto a questo stato, dove si schiaccia nella terra, scava una tomba provvisoria e si lascia attirare dalle radici vive che si aggrovigliano sotto le pietre, si appiattisce sotto il peso di questa enorme tristezza di cui poche persone hanno il privilegio non già di conoscere, ma semplicemente di indovinare le forme e le tenebre. Allora evito gli specchi. Non ho sempre il coraggio di tradirmi, cioè di scendere gli scalini che il destino mi ha tracciato e che conducono al fondo di me stesso, nella intimità – insostenibile – della verità che non può essere detta. Laggiù soltanto minuscoli vermi sinuosi mi tengono compagnia. Sono spesso tentato di organizzare il mio piccolo cimitero interno in modo tale che le ombre distese si risollevino per fare girotondo intorno a un sesso eretto, una verga che sarebbe la mia, ma che io non potrei mai portare né esibire. Sono io stesso l’ombra e la luce che la fa nascere, il padrone di casa – una rovina che dissimula una fossa comune – e l’invitato, la mano posata sulla fossa umida e la pietra interrata sotto una zolla erbosa, lo sguardo che si cerca e lo specchio, io sono e non sono questa voce che si accomoda e prende la piega del mio corpo, il mio viso avviluppato nel velo di questa voce, essa è poi la mia o è quella del padre che me l’avrebbe insufflata? o semplicemente messa dentro facendomi la respirazione bocca a bocca mentre dormivo? Sia che io la riconosca o la ripudi, so che lei è la mia maschera più sottile, la meglio elaborata, la mia immagine più credibile: mi turba e mi esaspera, irrigidisce il mio corpo, lo avvolge con un piumino che ben presto si trasforma in peli. E’ riuscita a eliminare la dolcezza della mia pelle e il mio viso è quello di questa voce. Io sono l’ultimo ad avere diritto al dubbio. No, nemmeno questo mi è permesso. La voce, greve, granulata, lavora, mi intimidisce, mi scuote e mi getta nella folla, perché io la meriti, perché io la porti con sicurezza, naturalmente, senza eccessiva fierezza, senza collera né follia, devo padroneggiare il ritmo, il timbro e il canto, e conservarla nel calore delle mie viscere. La verità si esilia: basta che io parli perché la verità si allontani, perché la si dimentichi, e io divento il becchino e il dissotterratore, il padrone e lo schiavo. La voce è fatta così: non mi tradisce…e, anche se volessi io tradirla in qualche modo rivelandola nella sua nudità, non potrei, non saprei e forse persino ne morrei. Le sue esigenze le conosco: evitare la collera, i gridi, l’estrema dolcezza, il mormorio basso, in breve l’irregolarità. Sono regolare. E sto zitto per calpestare questa immagine che mi è insopportabile. Oh mio Dio, quanto mi pesa questa verità! Dura esigenza. E’ duro essere rigorosi. Sono l’architetto e la dimora; l’albero e la linfa; me e un altro; me e un’altra. Nessun particolare dovrebbe venire a perturbare questo rigore né dall’esterno né dal fondo della fossa. Nemmeno il sangue. Eppure il sangue un mattino ha macchiato le mie lenzuola. Impronta dello stato di fatto del mio corpo arrotolato in fasce di tessuto bianco per fare vacillare la debole certezza, o per smentire l’architettura dell’apparenza. Sulle mie cosce un sottile filo di sangue, una linea irregolare di un rosso pallido. Forse non era sangue, ma una vena gonfiata, una varice che si era colorata nella notte, una visione appena prima la luce del mattino; eppure il lenzuolo era tiepido come se avviluppasse un corpo tremebondo, appena tirato fuori dalla terra umida. Era proprio sangue; resistenza del corpo a quel nome; spruzzo di una circoncisione tardiva. Era un richiamo, la smorfia di un ricordo scacciato, il ricordo di una vita che non avevo conosciuto e che avrebbe potuto essere la mia. Strana cosa portare in sé una memoria non accumulata in un tempo vissuto, ma ricevuta all’insaputa degli uni e degli altri. Mi dondolavo in un giardino, su una terrazza in cima a una montagna e non sapevo da quale parte rischiavo di cascare. Mi dondolavo in un lenzuolo rosso dove il sangue s’era confuso con il colore di quella tela. Sentivo il bisogno di guarirmi da solo, di scaricarmi di quella solitudine pesante come una muraglia che raccoglie le lamentele e gli urli di un’orda abbandonata, una moschea nel deserto, dove la gente all’ora del crepuscolo viene a deporre la sua tristezza e a offrire un po’ del suo sangue. Una voce sottile fende la parete e mi dice che il sogno paralizza le stelle del mattino. Guardo il cielo e non ci vedo che un tratto bianco tracciato da una mano perfetta. Su questo percorso dovrei lasciare qualche pietra, punti di riferimento, capisaldi della mia solitudine, dovrei avanzare con le braccia tese come per aprire il sipario della notte che scenderebbe improvvisamente dal cielo, da quel cielo che cadrebbe in un pezzo solo compatto di questa notte che io porto in faccia, come una testa che non potrei nemmeno strangolare. Questo sottile filo di sangue non poteva essere altro che una ferita. Con la mano cercavo di fermare l’emorragia. Guardavo le mie mani dischiuse, legate da una bolla di quel sangue diventato quasi bianco. Ci vedevo attraverso il giardino, gli alberi immobili e il cielo tagliato dai rami altissimi. Il cuore mi batteva più forte del solito. Era emozione, paura o vergogna? D’altra parte me l’aspettavo. Avevo osservato molte volte mia madre e alcune delle mie sorelle mettere o tirare via dei pezzi di tessuto bianco tra le gambe. Mia madre faceva a pezzi le lenzuola consunte e riponeva quei pezzi in un angolo di un armadio. Le mie sorelle se ne servivano silenziosamente. Guardavo tutto con attenzione e aspettavo il giorno in cui anche io avrei aperto clandestinamente quell’armadio e avrei messo due o tre strati di tessuto tra le gambe. Sarei stato un ladro. Avrei ben sorvegliato la notte dell’emorragia. Poi avrei esaminato le macchie di sangue sul tessuto. Era quella la ferita. Una specie di fatalità, un tradimento dell’ordine. Al mio petto era sempre impedito lo sviluppo. Immaginavo dei seni che si gonfiavano verso l’interno rendendomi difficile la respirazione. Tuttavia non ho avuto seni…Un problema di meno. Dopo l’avvenimento del sangue, fui ricondotto a me stesso e ripresi le linee della mano così come il destino le aveva disegnate». «15 Aprile. Ho dato abbastanza da parte mia. Adesso cerco di risparmiarmi. Per me è stata una scommessa. L’ho quasi persa. Essere donna è una menomazione naturale della quale tutti si fanno una ragione. Essere uomo è un’illusione e una violenza che giustifica e privilegia qualsiasi cosa. Essere, semplicemente essere, è una sfida. Sono stanco e stanca. Se non ci fosse questo corpo da riaccomodare, questa stoffa consunta da rappezzare, questa voce ormai grave e arrugginita, questo petto esausto e questo sguardo ferito, se non ci fossero questi spiriti ristretti, questo diario maledetto, queste parole dette nella grotta e quel ragno che sbarra l’ingresso e fa la guardia, se non ci fosse l’asma che affatica il cuore e questo kif che mi allontana da questa stanza, se non ci fosse questa tristezza profonda che mi insegue…Aprirei queste finestre e darei la scalata ai muri più alti per raggiungere la cima della solitudine, la mia sola dimora, il mio rifugio, il mio specchio e la strada dei miei sogni».

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14/07/2014 - simona72
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fino a metà libro proprio bello... la seconda parte faticoso... mi ha lasciata un po' perplessa

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05/02/2018 - sofia
utente
Notizie sull'autore:« Non incontrerai mai due volti assolutamente identici. Non importa la bellezza o la bruttezza: queste sono cose relative. Ciascun volto è simbolo della vita. E tutta la vita merita rispetto. È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per se stessi. » (Tahar Ben Jelloun)Tahar Ben Jelloun nasce a Fès, nell'allora Marocco francese, il 1º dicembre del 1944 da un'agiata famiglia di etnia berbera. Ben Jelloun trascorre la sua adolescenza a Tangeri e compie gli studi di filosofia presso l'Università di Rabat, dove comincia a scrivere le sue prime poesie in francese, raccolte poi sotto il titolo di Hommes sous linceul de silence (1971). In patria, ha svolto per diversi anni il ruolo di docente di filosofia ma, a causa dell'arabizzazione dell'insegnamento (e non essendo egli abilitato alla pedagogia in lingua araba), si è trovato costretto, nel 1971, ad emigrare in Francia, a Parigi, dove tre anni dopo ha conseguito un dottorato in psichiatria sociale sulla confusione mentale degli immigrati ospedalizzati, che verrà in seguito pubblicata col titolo L'estrema solitudine. La sua esperienza di psicoterapeuta sarà poi riversata nel romanzo La Réclusion solitaire ("La reclusione solitaria", 1976). Nel frattempo continua a scrivere, sempre esclusivamente in francese, collaborando regolarmente col quotidiano Le Monde. Oggi vive a Parigi ed è padre di 4 figli. Il suo primo romanzo, Harrouda, è del 1973. Con il Premio Goncourt assegnatogli per La Nuit sacrée nel 1987, è divenuto lo scrittore straniero francofono più conosciuto in Francia. Interviene con dibattiti e articoli sui problemi della società, soprattutto sul problema della periferia urbana e del razzismo. Nel 2004 ha ricevuto il Premio Letterario Internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa per Amori stregati. Con il libro Il razzismo spiegato a mia figlia e per il suo profondo messaggio gli è stato conferito dal segretario delle Nazioni Unite il Global Tolerance Award e nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Trieste Poesia[1]. Dal 2011 è membro della giuria del premio letterario Guillaume-Apollinaire. Nel 2013 ha vinto il Premio Nazionale Vincenzo Padula - Sezione "Narrativa Internazionale".https://it.wikipedia.org/wiki/Tahar_Ben_Jelloun Sinossi:In un paese senza età, che è anche il Marocco di oggi, nasce dopo sette sorelle Mohamed Ahmed. Nasce femmina, ma per volere del padre, che non vuole disperdere il patrimonio accumulato, crescerà maschio a dispetto del suo corpo, e dovrà reggere la casa e la servitú, essendo riconosciuta da tutti come nuovo capofamiglia. Il romanzo è la storia di un'identità inventata, di una metamorfosi coatta, dei turbamenti, delle ossessioni, delle violenze e dei paradossi che ne derivano. Ed è anche una finestra aperta sul mondo arabo, sulle sue tradizioni e sui suoi tabú, che ancora oggi stentiamo a capire.https://www.ibs.it/creatura-di-sabbia-libro-tahar-ben-jelloun/e/9788806174743 Cosa ne penso io: Sono affascinata da questa fiaba che ci immerge in un mondo per noi sconosciuto: il mondo arabo. La protagonista suo malgrado allevata come un uomo attraverserà diventata grande il misticismo sufi attraversando le porte che portano alla conoscenza.Non ne resterà indenne e avrà molte esperienze anche negative. Vari i narratori che si alternano e l'atmosfera è quasi da mille ua notte. Non a tutti , secondo me, piacerà questo libro a. A me le storie arabe piacciono molto quindi voto perchè sia letto nell'ottica giusta.

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05/02/2018 - sofia
utente
Notizie sull'autore:« Non incontrerai mai due volti assolutamente identici. Non importa la bellezza o la bruttezza: queste sono cose relative. Ciascun volto è simbolo della vita. E tutta la vita merita rispetto. È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per se stessi. » (Tahar Ben Jelloun)Tahar Ben Jelloun nasce a Fès, nell'allora Marocco francese, il 1º dicembre del 1944 da un'agiata famiglia di etnia berbera. Ben Jelloun trascorre la sua adolescenza a Tangeri e compie gli studi di filosofia presso l'Università di Rabat, dove comincia a scrivere le sue prime poesie in francese, raccolte poi sotto il titolo di Hommes sous linceul de silence (1971). In patria, ha svolto per diversi anni il ruolo di docente di filosofia ma, a causa dell'arabizzazione dell'insegnamento (e non essendo egli abilitato alla pedagogia in lingua araba), si è trovato costretto, nel 1971, ad emigrare in Francia, a Parigi, dove tre anni dopo ha conseguito un dottorato in psichiatria sociale sulla confusione mentale degli immigrati ospedalizzati, che verrà in seguito pubblicata col titolo L'estrema solitudine. La sua esperienza di psicoterapeuta sarà poi riversata nel romanzo La Réclusion solitaire ("La reclusione solitaria", 1976). Nel frattempo continua a scrivere, sempre esclusivamente in francese, collaborando regolarmente col quotidiano Le Monde. Oggi vive a Parigi ed è padre di 4 figli. Il suo primo romanzo, Harrouda, è del 1973. Con il Premio Goncourt assegnatogli per La Nuit sacrée nel 1987, è divenuto lo scrittore straniero francofono più conosciuto in Francia. Interviene con dibattiti e articoli sui problemi della società, soprattutto sul problema della periferia urbana e del razzismo. Nel 2004 ha ricevuto il Premio Letterario Internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa per Amori stregati. Con il libro Il razzismo spiegato a mia figlia e per il suo profondo messaggio gli è stato conferito dal segretario delle Nazioni Unite il Global Tolerance Award e nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Trieste Poesia[1]. Dal 2011 è membro della giuria del premio letterario Guillaume-Apollinaire. Nel 2013 ha vinto il Premio Nazionale Vincenzo Padula - Sezione "Narrativa Internazionale".https://it.wikipedia.org/wiki/Tahar_Ben_Jelloun Sinossi:In un paese senza età, che è anche il Marocco di oggi, nasce dopo sette sorelle Mohamed Ahmed. Nasce femmina, ma per volere del padre, che non vuole disperdere il patrimonio accumulato, crescerà maschio a dispetto del suo corpo, e dovrà reggere la casa e la servitú, essendo riconosciuta da tutti come nuovo capofamiglia. Il romanzo è la storia di un'identità inventata, di una metamorfosi coatta, dei turbamenti, delle ossessioni, delle violenze e dei paradossi che ne derivano. Ed è anche una finestra aperta sul mondo arabo, sulle sue tradizioni e sui suoi tabú, che ancora oggi stentiamo a capire.https://www.ibs.it/creatura-di-sabbia-libro-tahar-ben-jelloun/e/9788806174743 Cosa ne penso io: Sono affascinata da questa fiaba che ci immerge in un mondo per noi sconosciuto: il mondo arabo. La protagonista suo malgrado allevata come un uomo attraverserà diventata grande il misticismo sufi attraversando le porte che portano alla conoscenza.Non ne resterà indenne e avrà molte esperienze anche negative. Vari i narratori che si alternano e l'atmosfera è quasi da mille una notte. Non a tutti , secondo me, piacerà questo libro a. A me le storie arabe piacciono molto quindi voto perchè sia letto nell'ottica giusta.

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05/02/2018 - sofia
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Notizie sull'autore:« Non incontrerai mai due volti assolutamente identici. Non importa la bellezza o la bruttezza: queste sono cose relative. Ciascun volto è simbolo della vita. E tutta la vita merita rispetto. È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per se stessi. » (Tahar Ben Jelloun)Tahar Ben Jelloun nasce a Fès, nell'allora Marocco francese, il 1º dicembre del 1944 da un'agiata famiglia di etnia berbera. Ben Jelloun trascorre la sua adolescenza a Tangeri e compie gli studi di filosofia presso l'Università di Rabat, dove comincia a scrivere le sue prime poesie in francese, raccolte poi sotto il titolo di Hommes sous linceul de silence (1971). In patria, ha svolto per diversi anni il ruolo di docente di filosofia ma, a causa dell'arabizzazione dell'insegnamento (e non essendo egli abilitato alla pedagogia in lingua araba), si è trovato costretto, nel 1971, ad emigrare in Francia, a Parigi, dove tre anni dopo ha conseguito un dottorato in psichiatria sociale sulla confusione mentale degli immigrati ospedalizzati, che verrà in seguito pubblicata col titolo L'estrema solitudine. La sua esperienza di psicoterapeuta sarà poi riversata nel romanzo La Réclusion solitaire ("La reclusione solitaria", 1976). Nel frattempo continua a scrivere, sempre esclusivamente in francese, collaborando regolarmente col quotidiano Le Monde. Oggi vive a Parigi ed è padre di 4 figli. Il suo primo romanzo, Harrouda, è del 1973. Con il Premio Goncourt assegnatogli per La Nuit sacrée nel 1987, è divenuto lo scrittore straniero francofono più conosciuto in Francia. Interviene con dibattiti e articoli sui problemi della società, soprattutto sul problema della periferia urbana e del razzismo. Nel 2004 ha ricevuto il Premio Letterario Internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa per Amori stregati. Con il libro Il razzismo spiegato a mia figlia e per il suo profondo messaggio gli è stato conferito dal segretario delle Nazioni Unite il Global Tolerance Award e nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Trieste Poesia[1]. Dal 2011 è membro della giuria del premio letterario Guillaume-Apollinaire. Nel 2013 ha vinto il Premio Nazionale Vincenzo Padula - Sezione "Narrativa Internazionale".https://it.wikipedia.org/wiki/Tahar_Ben_Jelloun Sinossi:In un paese senza età, che è anche il Marocco di oggi, nasce dopo sette sorelle Mohamed Ahmed. Nasce femmina, ma per volere del padre, che non vuole disperdere il patrimonio accumulato, crescerà maschio a dispetto del suo corpo, e dovrà reggere la casa e la servitú, essendo riconosciuta da tutti come nuovo capofamiglia. Il romanzo è la storia di un'identità inventata, di una metamorfosi coatta, dei turbamenti, delle ossessioni, delle violenze e dei paradossi che ne derivano. Ed è anche una finestra aperta sul mondo arabo, sulle sue tradizioni e sui suoi tabú, che ancora oggi stentiamo a capire.https://www.ibs.it/creatura-di-sabbia-libro-tahar-ben-jelloun/e/9788806174743 Cosa ne penso io: Sono affascinata da questa fiaba che ci immerge in un mondo per noi sconosciuto: il mondo arabo. La protagonista suo malgrado allevata come un uomo attraverserà diventata grande il misticismo sufi attraversando le porte che portano alla conoscenza.Non ne resterà indenne e avrà molte esperienze anche negative. Vari i narratori che si alternano e l'atmosfera è quasi da mille una notte. Non a tutti , secondo me, piacerà questo libro a. A me le storie arabe piacciono molto quindi voto perchè sia letto nell'ottica giusta.

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