“Ho sognato la cioccolata per anni” di Trudi Birger è un’autobiografia commovente e toccante, delicata, ma allo stesso tempo forte per il tema trattato, ovvero narra degli orrori subiti nei campi di concentramento. Sedici anni nel periodo della deportazione della seconda guerra mondiale, sopravissuta prima nel ghetto di Kovno, poi nel campo di Stutthof. L’unica sua fonte di combattimento e voglia di andare avanti è l’amore smisurato per la madre, un legame che supera ogni confine: «Il funerale di mamma fu uno dei momenti più penosi della mia vita dopo la liberazione. Persi la capacità di sorridere per un anno o più. Tutti i terribili ricordi dell'Olocausto rifluirono in me, insieme con la sofferenza e la paura che avevo condiviso con lei. Adesso non avevo più nessuno con cui condividere quei ricordi. Era stata la mia migliore amica mentre ero bambina nel ghetto perché tutte le mie compagne di scuola erano state uccise, e lei era l'unica che potesse capire completamente l'orrore di quello che avevamo vissuto, come la fucilazione di zio Benno davanti agli occhi di sua madre. Mamma conosceva lo strazio di tornare a casa da un lavoro degradante all'ospedale militare per scoprire che il mio caro padre era stato portato via e giustiziato. Come me, era stata tormentata ogni giorno dalla stessa paura, quella che potessimo essere separate dalla morte. Adesso che la morte ci aveva divise, provavo un dolore insopportabile». Con un linguaggio semplice ed amico, l’autrice riesce a pieno a farti entrare nella storia, a farti vivere quegli stessi stati d’animo, e a far brillare e rivalere quella speranza che è stato il moto per l’andare avanti, il proseguire, il non fermarsi davanti a queste atroci barbarie. Infine voglio riportare un passo del libro che spiega perfettamente il particolare titolo del libro: “Prima dello scoppio della guerra, quando abitavamo a Memel, una città portuale sulla costa baltica a nord di Stutthof, mia zia Tita mi conduceva spesso ai tè danzanti, vestita con abiti di organza e scarpette di vernice. Ordinava cioccolata calda per me, e io mi esibivo in valzer e tanghi con ragazzini dodicenni. Mi ricordavo con gioia quella cioccolata calda, e la sognavo notte dopo notte. La prima cosa che mi sarei concessa dopo la fine della guerra sarebbe stata una bella tazza di cioccolata calda.” “Nessuno deve dimenticare le crudeltà dei campi. Non erano solo fabbriche impersonali di morte. Erano luoghi dove sadici, brutali criminali potevano mettere in atto le loro fantasie più perverse su delle vittime innocenti.” “Ancor oggi una parte di me dice: "Cancella quei cinque anni della tua vita! Non parlarne. Vivi nel presente, per il futuro". Quella parte di me vuole scrollarsi di dosso i ricordi. Ma io non fuggo, perché un'altra parte in me dice che cancellare il passato è un'offesa alla memoria di chi ha sofferto e all'immensa moltitudine che non è sopravvissuta. Per questa ragione ho spesso parlato a gruppi di scolari israeliani nella giornata commemorativa dell'Olocausto. Trovo penoso e spossante stare di fronte a un gruppo di persone ed esporre le mie sventure. Mentre parlo, non vedo più i giovani davanti a me. Vedo il ghetto e i campi. Vedo le vittime e i loro cadaveri. E tutta la paura di quegli anni ha di nuovo il sopravvento. Eppure, per quanto sia estenuante, continuo a farlo. Mi sento in dovere di trasmettere la storia dell'Olocausto alla nuova generazione, ed è giusto che sia così visto che c'è ancora chi la può raccontare.”